Il tempo del “mi ha detto mio cuggino” celebrato da Elio e le Storie Tese avrebbe dovuto finire con l’avvento di Internet. Eppure ancora oggi, malgrado l’accesso totale alle informazioni, anche il più preparato di noi crede ancora a moltissime bufale. Alcune sono così radicate che sono entrate nella Storia, quella con la S maiuscola che si studia sui libri.
L’era dell’informazione ci regala moltissimi dati, molti dei quali sono destinati a demolire le nostre granitiche convinzioni: gli elmi dei vichinghi non avevano le corna, le piramidi non sono state fatte dagli schiavi, ma da operai specializzati, Einstein non ha mai parlato delle api.
Malgrado questo, ci sono diversi falsi storici che resistono. Anche sui libri di storia, per esempio. Ne abbiamo trovati alcuni davvero insospettabili, anche per i più preparati. Voi in quanti siete caduti?
Pensatelo come alla Apple del quindicesimo secolo
Se c’è qualcosa che praticamente tutti si ricordano dai libri di scuola è l’invenzione della stampa a caratteri mobili. La Bibbia di Gutenberg è riconosciuto da tutti come il primo libro stampato con la tecnica dei caratteri mobili, che ha rivoluzionato la stampa, il modo di trasferire la conoscenza e di fatto la civiltà stessa.
Dal 1455 in avanti, insomma, il mondo è cambiato, proprio grazie a Gutenberg e alla sua invenzione. Se non fosse per un trascurabile dettaglio: il Jikji. Un libro stampato a caratteri mobili in Corea nel 1377. Secondo il sito dell’UNESCO si tratta della prima evidenza della storia di stampa a caratteri mobili, anche se in altri libri coreani si trovano tracce ancora precedenti di questa tecnica.
Gutenberg insomma non fece altro che prendere una tecnologia esistente e riproporla con un “marketing” migliore. Nell’Europa medievale avere l’appoggio della chiesa di Roma equivaleva ad avere un repost dalla coppia Ferragni-Fedez oggi.
Per aggiungere la beffa al danno, il Jikji è una raccolta di testi sacri Zen. Il che toglie anche alla Bibbia il primato come primo libro religioso stampato nella storia dell’umanità.
Se pensiamo agli scozzesi, il kilt è senza dubbio tra le prime tre cose che ci vengono in mente, insieme alle alle cornamuse e alle highlands. E al whiskey. Anzi, dopo il whiskey. Che molto probabilmente ha avuto un ruolo importante nella scrittura della storia scozzese.
L’origine del kilt come lo conosciamo si fa risalire al Vestiarium Scoticum, un eminente manoscritto di storia della moda del 1580 in cui si documentano i costumi di 75 clan storici scozzesi.
Di recente però si è scoperto che i due fratelli inglesi che lo hanno divulgato, che si facevano chiamare Sobieski Stuart, se lo sono inventato quasi interamente, basandosi anche sul lavoro del poeta del 18esimo secolo James Macpherson, che a sua volta sostiene di averlo trovato e tradotto. Ma che secondo la maggioranza degli storici e degli esperti si sarebbe inventato quasi tutto.
Il tutto nasce dalla necessità di farsi belli con i rivali e conquistatori inglesi dopo l’annessione del 1707. Gli scozzesi infatti erano alla disperata ricerca di qualcuno o qualcosa che potesse eguagliare la grandezza di Shakespeare, per rivaleggiare con i vicini di casa, ma non trovarono nulla. Da qui il bisogno di costruire un’identità nazionale forte. Così, ogni volta che saltava fuori un documento storico che celebrasse la grandezza del popolo scozzese, non si andava troppo per il sottile con la verifica delle fonti. E l’idea di guerrieri scozzesi che piombavano sui nemici suonando cornamuse, vestiti solo di una gonna a scacchi e di una monumentale arroganza e con i tenerini al vento deve essere piaciuta molto agli storici scozzesi. Whiskey, mai sottovalutarlo.
Ammettiamolo: il 1492 andrebbe ricordato come l’anno dell’invenzione dell’epic fail. Anche perché prima di Cristoforo Colombo dall’America ci sono passati più o meno tutti: Vichinghi (senza elmi cornuti), eschimesi, popoli antichi, qualcuno pensa anche i Fenici.
Oltretutto, Cristoforo Colombo non ha mai attraccato in America. E nemmeno in Colombia, come sostiene qualcuno, ma in alcune isole delle Bahamas.
Peraltro, anche sulla “scoperta” dell’America ci sono diversi litigi. Solo per rimanere in Italia, oltre ad Amerigo Vespucci, alcuni attribuiscono buona parte del merito a Giovanni Caboto.
Un pasticciaccio brutto insomma, per non parlare di quello che è successo dopo.
Uno dei gruppi esoterici e massoni più potenti e temuti della storia, le cui origini si perdono da qualche parte intorno al 1600, ma che vantano connessioni della notte dei tempi con l’alchimia, con Paracelso, con le crociate e con le comunità paleocristiane.
Insomma, se Dan Brown scrivesse male, qui ci sarebbero gli elementi per il suo prossimo libro.
E, parlando di libri, i Rosacroce sono un’invenzione letteraria, a cui si è ispirato anche Jorge Luis Borges per la sua narrativa. Il quale peraltro non ha mai nemmeno finto di aver fatto scoperte in merito. La storia più attendibile vuole che i Rosacroce furono inventati dal ministro di culto luterano Johannes Valentinus Andreae, che scrisse insieme ad altri amici Fama fraternitatis Rosae Crucis, un libello nato per prendersi gioco degli occultisti nel 1614. Quando videro che la cosa stava scappando loro di mano, gli autori si prodigarono in ogni modo per spiegare che era stato solo un divertimento, e che non c’era nulla di vero. Ma si sa, la cospirazione affascina. E quando uno dei “voti” di una setta è proprio la segretezza, diventa facile rendere credibile qualsiasi cosa, alla faccia del Rasoio di Occam.
Insomma, “Svegliiaaaa!!!!!111! Non ce lo diconoOOOoo!!1!!1” Non è nato con Internet.
Ci costa ammetterlo, ma la divisa iconica dei ninja, quella nera con il volto coperto e gli stivali/infradito probabilmente non solo non era usata di frequente, ma non è nemmeno mai esistita.
Per una semplice ragione: sarebbe stata l’equivalente orientale della tenuta da spia con impermeabile, cappello, occhiali da sole e quotidiano d’ordinanza. Insomma, il modo migliore per farsi sgamare in tre secondi.
I Ninja erano spie e maestri del sotterfugio, non fessi che amavano farsi beccare per sparire tirando per terra una bombetta fumogena. Incontrare un ninja insomma significava… non accorgersene, perché era mimetizzato fra le persone travestito da bracciante, sguattero o lavandaia. Oppure accorgersene e non vivere abbastanza per raccontarlo.
Da buone spie infatti i ninja prediligevano essere poco appariscenti, mischiarsi fra la folla e agire di nascosto, soprattutto con veleni e altre armi letali ma silenziose e, possibilmente, facili da occultare.
Per lo stesso motivo anche la katana sulla schiena è una baggianata: primo perché sarebbe stata decisamente appariscente, secondo perché la katana era l’arma di elezione dei samurai e non è adatta a un sicario.
Terzo, avete mai provato a sfoderare un metro d’acciaio da un fodero fissato stretto sulla schiena? Spoiler: bisogna avere un braccio da un metro e mezzo. Quindi, essere Hafpor Julius Bjornsson. O avere le proporzioni di un gorilla.
Questo turberà di sicuro chiunque ha uno spiccato senso della precisione. Quello che stabilisce che due calzini siano un paio è il fatto che siano identici, corretto? Bene, perché un qualsiasi responsabile di produzione vi potrà dire che produrre due pezzi identici di qualsiasi cosa è statisticamente impossibile. Quello che ci frega sono due concetti chiamati tolleranze e dispersione delle caratteristiche (termine rubato all’elettronica, ma che spiega perfettamente il concetto). Quindi, il vostro amato paio di calzini in realtà è già costituito da due calzini diversi. Magari molto simili, ma diversi. E la situazione peggiora con i lavaggi: due pezzi di stoffa infatti con l’usura tendono a deformarsi e scolorirsi diversamente, anche se provengono dalla stessa pezza. Quindi, ogni paio di calzini è in realtà costituito da due calzini che fanno finta.