Dopo anni di inedia digitale passati a pubblicare e condividere qualsiasi immagine o idea al mondo intero, senza filtro alcuno, il popolo di Internet ha di recente scoperto la privacy. Lo pretende a gran voce questo diritto, dopo aver ingenuamente realizzato (con anni di ritardo) che servizi gratuiti come i social network non chiedono denari per l’accesso, bensì dati. Dati che, per pigrizia, ingenuità o scarsa conoscenza tecnica, il pubblico non ha voluto proteggere adeguatamente, anzi, ha disseminato in giro per il mondo, su mille social differenti, accessibile a chiunque facesse una ricerca su Google.
Ora il bubbone è scoppiato e sia le istituzioni sia gli utenti puntano l’indice contro i social network, rei di non aver protetto i dati che la gente stessa ha esplicitamente chiesto di rendere accessibili a chiunque sia dotato di una connessione Internet. Basta sfogliare un qualsiasi social network per realizzare che ancora oggi è pieno di profili i cui contenuti, immagini e geotag compresi, sono impostati in modalità “pubblica”, accessibile a chiunque, non solo a una cerchia ristretta di amici. Questi dati includono spesso il numero di telefono e la propria posizione a ogni singolo post. Come atteggiamento non è diverso dall’andare in zone controllate dalla mala sfoggiando un Patek Philippe al polso. Peccato che se andiamo a denunciare di esserci fatti fregare 30.000 euro di orologio passeggiando per la città, chiunque ci dirà che siamo stati poco avveduti a sfoggiare il gioiello; nel caso di Internet, invece, sono ancora in pochi a comprendere come funziona la Rete e come acquisisce i dati e si preferisce accanirsi contro alcuni operatori. Ieri era Microsoft, oggi è Facebook, domani sarà qualcun altro.
Sono messi meglio i Millenials, nati e cresciuti in mezzo alla tecnologia, più consci del funzionamento delle reti e dei loro pericoli. A ben vedere sono proprio i ragazzi più giovani ad aver abbandonato Facebook, proprio per i suoi problemi di privacy e ben prima che i media annunciassero catastrofi. Come tutti i ragazzi, sentivano l’esigenza di indipendenza dai genitori, dalle generazioni precedenti, e per farlo dovevano trovarsi un loro spazio. Filtrando l’accesso ad alcuni contenuti in modo da renderli illeggibili ai parenti su Facebook e spostandosi in massa verso altre piattaforme non utilizzate dai “vecchi”. Piattaforme che, almeno sulla carta, danno un maggior controllo sui dati e su come vengono condivisi. Come Snapchat, o Telegram, molto in voga soprattutto fra gli under 25.
Eppure, nonostante la scelta di piattaforme intrinsecamente più sicure, dove è più semplice capire con chi stiamo condividendo informazioni, sono in tanti a rinunciare – volontariamente – alla propria riservatezza. Gli stessi ragazzi, bravissimi a nascondere ai genitori la registrazione nella discoteca “proibita” e set di foto imbarazzanti, non si fanno scrupoli a pubblicare immagini della carta di credito appena regalata su Snapchat.
Il problema della privacy, oggi, non necessita di nuovi strumenti. Quelli che ci sono funzionano bene. Bisogna però imparare a maneggiarli adeguatamente e – soprattutto – vincere la tentazione di mettere tutte le informazioni online, anche se teoricamente accessibili da pochi. Siamo sicuri di volerci fidare del sistema di caricamento automatico delle foto del cellulare su un servizio online? Siamo sicuri di voler dare il nostro indirizzo di casa a Instagram? Agli albori di Internet eravamo tutti affascinati dall’anonimato che garantiva. Non è da escludere che forse sia tempo di tornare alle origini.