Il mondo cambia, e con lui cambia il modo di fare informazione e gli attori che gestiscono il flusso di notizie. Internet ha mantenuto la sua promessa, permettendo a chiunque di trasformarsi in giornalista. Ogni volta che pubblichiamo la nostra opinione su Facebook, che postiamo un articolo su un blog, una foto su Instagram o un video su Youtube, stiamo a tutti gli effetti facendo informazione. Ci stiamo improvvisando giornalisti.
C’è chi lo fa sporadicamente, magari valutando su Tripadvisor la pizzeria appena provata, e chi ne fa una professione, offrendo la sua opinione su un argomento (o in certi casi su tutto) e cercando di monetizzare il suo pubblico. Se hai un canale Youtube seguito da migliaia di persone puoi arrotondare lo stipendio divertendoti. Se sono centinaia di migliaia, o milioni, puoi guadagnare abbastanza da concentrarti su quello vivendo di pubblicità.
L’aspetto più singolare è che nonostante gli influencer facciano esplicitamente promozione e non critica, hanno molta credibilità, ben più di quanta ne abbiano i giornalisti. Il fatto è che lo storytelling ha sostituito la valutazione, l’opinione dell’esperto, quasi che al lettore/spettatore interessasse più lo show che il giudizio. Uno scenario poco esaltante per l’editoria ma ideale per chi si occupa di marketing e promozione. Questi ultimi non devono più impazzire tentando di convincere la stampa della bontà dei loro prodotti. Oggi possono contattare lo Youtuber o l’Instagrammer di grido e chiedergli il listino prezzi. Un po’ come accade nell’alta cucina, dove (alcuni) chef stellati hanno smesso di selezionare i migliori prodotti preferendo diventare ambasciatori di qualche grande marchio. Che in cambio gli offre prodotti o lo ripaga con la stessa moneta: la visibilità.
L’opinione è morta? No, ma ha perso d’importanza. Per lo meno, se si parla della recensione della penna autorevole. Quella che ci metteva la faccia, l’esperienza. Quella che lo faceva per lavoro. Oggi il pubblico preferisce l’opinione del cliente medio, quello che valuta su Tripadvisor il ristorante dove ha cenato e su Amazon le cuffie per lo smartphone. Lo sente più vicino a sé, più credibile e genuino. Così come ritiene più attendibile l’influencer, forse perché invece di nascondersi dietro alla sacralità di una professione ti sbatte in faccia di essere prezzolato.
Questo cambia radicalmente anche le dinamiche. Gestire una crisi in maniera tradizionale era relativamente semplice: si contattava l’editore nel tentativo di trovare una soluzione. I più aggressivi arrivavano a minacciare denunce in caso di recensioni negative. Tutte strategie destinate a fallire oggi utili solo a scatenare l’effetto Streisand.
Gli influencer insomma costano relativamente poco e sono facilmente manipolabili. Ma non illudetevi che basti essere molto seguiti per essere anche intoccabili: le infelici uscite di PewDiePie gli hanno fatto perdere l’appoggio di YouTube, Warner a altri grossi sponsor. Un sacco di milioni di euro che non entreranno nelle sue tasche per becere battute che, probabilmente, un professionista avrebbe capito era meglio evitare. Certo, si può anche dire che gli stessi professionisti magari più attenti agli scivoloni poco hanno fatto per arginare il fenomeno. Anzi, l’impressione è che nel tentativo di avvicinarsi ai nuovi media la qualità dell’informazione si sia generalmente livellata verso il basso, per esempio cadendo nel tranello delle fake news riportandone più di una sulla stampa. Il risultato finale sembra quasi una beffa, coi gestori dei Social Network – e non l’Ordine dei Giornalisti – a cercare soluzioni contro la diffusione delle bufale.