Se il Black Friday è entrato di recente nelle abitudini italiane è in buona parte merito di Amazon, che è stata fra le prime aziende a promuovere massicci sconti per il venerdì più importante dell’anno (per lo meno nel calendario statunitense). Come ci siamo abituati alle zucche e maschere di Halloween, anch’esse infilate di recente nei nostri costumi, così ci siamo abituati che in questa giornata qualsiasi prodotto o servizio sia scontato, si tratti di una lampadina o di un corso di yoga. Negli USA si parla di oltre oltre 3,3 miliardi di dollari di acquisti online solo in questa giornata, mentre nella nostra piccola penisola si parla di 185 milioni nel 2016, con un incremento del 15% rispetto all’anno precedente. Inutile dire che il ruolo da protagonista se lo giocano i più grossi.
Nonostante i fatturati spaventosi di Amazon (è al 44° posto della Fortune 500) e il fatto che il suo fondatore sia l’uomo più ricco del mondo, i suoi dipendenti non sono così felici e fieri di lavorarci. Altri colossi dell’IT cercano di coccolare i propri dipendenti con benefit di ogni tipo: i pasti gratuiti a qualsiasi ora per i dipendenti di Google e l’enorme flessibilità di gestione del tempo per chi lavora in Netflix sono solo alcuni esempi. Amazon, invece, va controcorrente. I suoi turni sono rigidi, il lavoro – a tutti i livelli – stressante e l’azienda non sembra avere intenzione di cedere alle richieste dei suoi dipendenti (e dei relativi sindacati). Non si è nemmeno scomposta quando molti dei suoi dipendenti in Italia e Germania hanno deciso di scioperare proprio nel giorno più importante, quello del Black Friday. Si è limitata ad appoggiarsi maggiormente agli interinali durante l’agitazione.
Mentre realtà come Google, Netflix e Facebook cercano non solo di coccolare i propri dipendenti in ogni modo, ma ci tengono a farlo sapere al mondo, Amazon ha un approccio diverso. Si disinteressa delle lamentele e punta a ottimizzare i costi. Tanto che – secondo una ricerca di Blind, meno del 50% si sente pagato adeguatamente da Bezos e più del 60% starebbe cercando un’altra occupazione. Bisogna ovviamente tenere conto del tipo di lavoro, del fatto che la maggior parte dei dipendenti di Amazon alla fine dei conti sono quelli che confezionano i pacchi e li trasportano. Un lavoro che non richiede particolari competenze o una lunga formazione al contrario di ingegneri o esperti di marketing e di conseguenza chiunque può essere sostituito da un momento all’altro senza grandi traumi.
C’è da dire che Amazon non viola alcuna legge sul lavoro e che – sul piano legale – può tranquillamente ignorare le lamentele e tirare dritto per la sua strada. Rimane il fatto che, come nel caso di Uber, Foodora e tanti altri, l’enorme successo di pochi è basato sulla paga minima. La competizione si basa sull’ottimizzazione spinta di ogni processo, così spinta da regolamentare anche la frequenza delle pause per andare in bagno. L’intero business plan di questi colossi parte dal presupposto che per essere competitivi non si può andare oltre la paga e i diritti minimi concesso dalla legge a chi lavora per te. Basandosi sul fatto che oggi chi si “ribella” può venire facilmente sostituito da chiunque altro ma domani sarà sostituito direttamente da un robot, che non ha pretese di turnazione, ferie e pause pranzo. Un approccio forse efficace ma vecchio e lontano anni luce dal sogno della Silicon Valley, quello di migliorare le vite attraverso la tecnologia.