La qualità è la formula magica che si applica a ogni mestiere e lavoro. Vuoi emergere? “Punta sulla qualità”, ti diranno. Te lo diranno scrittori, contadini, influencer, youtuber, giornalisti, marketer… chiunque ribadirà questo banale concetto. Che poi verrà declinato in mille maniere negli slogan, nelle pubblicità e pure negli elevator pitch: “siamo una piccola realtà/gigantesca multinazionale che punta qualità”.
Ma di cosa parliamo esattamente? È possibile definire e – soprattutto – misurare la qualità o rimane un concetto astratto e mutabile, come la bellezza?
Facciamo un esempio concreto, un pomodoro. Come possiamo stabilire quale sia il migliore fra due pomodori? Li facciamo analizzare e ne valutiamo i principi nutrizionali? Oppure li facciamo assaggiare in doppio cieco a un gruppo di persone e valutiamo statisticamente quale è stato preferito? O, ancora, lo definiamo sulla base di come è stato coltivato (bio, agricoltura biologica…)?
Se già è complicato stabilire la qualità di un prodotto comune come un pomodoro, pensiamo a quanto può essere più difficile stabilire cosa sia la qualità di un contenuto. Cosa si intende per un buon articolo o un buon libro? Per l’editore la “bontà” si giudica dalle copie vendute, dagli abbonamenti sottoscritti, dai click ricevuti: dal denaro che il contenuto, direttamente o indirettamente, porta. Un lettore valuta la qualità del contenuto anche in relazione alle sue opinioni e alla sua percezione della realtà. Uno studioso valuterà l’attinenza e la precisione del resoconto dei fatti.
Il “punteggio di qualità” che troviamo in Google AdWords, per esempio, non ci dà alcun dato oggettivo sulla qualità “artistica” delle nostre inserzioni: ci dà un valore sull’andamento. Ci indica quanto il messaggio pubblicitario è pertinente per il pubblico selezionato e quando sta generando interesse fra chi lo visualizza. Ci dà un valore relativo alle performance della campagna, insomma.
Purtroppo, il mondo in cui utilizziamo i KPI non ci aiuta a migliorare. Ci permette di capire cosa funziona e cosa no in un dato momento, su un dato pubblico. Grazie ai test A/B è possibile valutare quale fra più creatività darà migliori risultati a livello statistico e concentrare su quello gli investimenti o su quali tipi di articoli puntare nel caso dell’editoria o del content marketing. L’altro lato della medaglia è che si rischia di tagliare le gambe alle novità e, in certi casi, alla qualità.
I dati ci aiutano a capire cosa funziona meglio fra quello che abbiamo, ma non ci spronano a uscire dal seminato, a provare nuove strade. Nel caso dell’editoria, per esempio, ci siamo trovati al paradosso dove gli articoli di costume contano più di quelli di politica o di economia, e l’approccio leggero e scanzonato del gossip è stato trasferito anche a temi più nobili, che meriterebbero un linguaggio più forbito. Non solo: dato che i lettori hanno certe aspettative, sono parecchie le realtà editoriali che li assecondano, rinunciando alla loro missione: fare informazione. Soprattutto, dimenticando che in questo settore la qualità dovrebbe essere data dall’autorevolezza, dalla correttezza delle informazioni. Si preferisce il soldo facile, solleticare il lettore ma raramente si fa informazione vera, a volte per fretta, a volte per pigrizia, spesso nella convinzione che i lettori sono beceri e vogliono cose becere. Senza magari pensare che i lettori più attenti ci sarebbero, ma devono essere attirati, riavvicinati a un modo di fare informazione che negli anni li ha fatti scappare.
Pensiamo alla ridicola crociata contro l’olio di palma che ha trasformato non solo il modo di comunicare, ma i prodotti stessi. A causa di una notizia male interpretata dalla stampa, molti produttori hanno cambiato i loro processi produttivi e hanno incentrato tutta la comunicazione sull’aver eliminato il criticato ingrediente. I produttori hanno avuto prodotti di maggior qualità? Assolutamente no, e le aziende lo sapevano bene, ma piuttosto che contraddire i loro clienti, piuttosto che informarli correttamente, hanno preferito accodarsi alla moda. Unica eccezione Ferrero, che ha continuato a usare l’olio di palma su Nutella e ha preferito informare, controbattere alle falsità e alle interpretazioni errate degli studi. Quante altre aziende sarebbero state così coraggiose?
A forza di voler accontentare, di voler piacere, insomma, si rischia di perdere l’identità e di scontentare tutti pur di accontentare una fugace moda. Non solo: così facendo si rinuncia al tentare altre vie, dal fare coraggiose mosse che non sono supportate dai dati ma potrebbero portare risultati inaspettati. Pensiamo per esempio alla pubblicità del Buondì, dove i creativi hanno scelto di fare il contrario di quanto dicono i dati su quel tipo di prodotto. Non ci possiamo sbilanciare sui dati di vendita ma le sole polemiche sulla campagna hanno dimostrato che ha colpito nel segno: tutti l’hanno vista e commentata. L’obiettivo di fare branding, insomma, è perfettamente riuscito. Il tutto facendo l’opposto di quanto avrebbero suggerito le best practice.