Verso la fine dello scorso anno, sia Facebook sia Twitter hanno fatto “coming out”, ammettendo quello che da tempo rifiutavano di fare. Altro che social network: le due piattaforme sono a tutti gli effetti delle media company, degli editori fondamentalmente. Diversi, innovativi, capaci di staccarsi dalla tradizione, questo è fuori dubbio – e Zuckerberg ci tiene a rimarcarlo – ma a tutti gli effetti svolgono quel delicato ruolo di controllare il flusso dell’informazione. Qualcosa che probabilmente non era nei piani iniziali di chi ha creato quei social, ma che è diventato inevitabile.
Nati come luoghi di scambio di informazioni, i social network ci hanno messo pochi anni a dominare la diffusione delle notizie. Invece di visitare le homepage dei quotidiani, i lettori si sono abituati a riceverle sul proprio feed, affidandosi alla selezione degli amici prima e agli algoritmi dei network successivamente. I giornali, da tempo alle prese con il crollo delle vendite e degli introiti pubblicitari, hanno visto nei social un modo per uscire dalla crisi e si sono gettati a pesce sulla novità.
Delegando, probabilmente senza accorgersene, il ruolo editoriale a un’entità differente, sia essa Facebook, Twitter o altri. Sino a che per leggere un giornale bisogna sceglierlo dall’edicola, o anche solo decidere dove puntare l’indirizzo del browser, l’editore ha una grossa responsabilità: studiare una linea editoriale che lo aiuti a guadagnarsi la fiducia del lettore. Da quando i giornali hanno preferito “arrendersi” alla comodità dei social, questo ruolo è venuto meno. Non conta essere considerati affidabili, conta riuscire a battere l’algoritmo, a fare in modo che le proprie notizie diventino più virali delle circa 2.000 che mediamente ci vengono sbattute ogni giorno sul feed.
Non è ovviamente una lotta fra pari. Il nostro feed è affollato da organi di informazione seria, intrattenimento, notizie inventate per far ridere e altre inventate per creare disinformazione. Sono in tanti a non rendersi conto che stanno condividendo indignati una bufala arrivata da “Il Giomale”, “il corsaro della sera”, “il Fatto Quotidaino” e, bisogna ammetterlo, gli organi d’informazione non hanno fatto molto per cercare di dare un freno, per aiutare i lettori a valutare quando una notizia è attendibile o meno. Anzi: molte testate “serie” hanno preferito mettersi sullo stesso livello, rinunciando ai fatti in favore del click. Non parliamo di giornali sconosciuti: parliamo anche di nomi insospettabili, come BBC.
Per assurdo, sono stati i fondatori dei social a porsi il problema delle bufale sulle loro piattaforme. Assumendosi quel ruolo dal quale gli editori hanno preferito abdicare: filtrare le notizie, scartare le informazioni non verificabili. Un onere che si stanno assumendo Facebook e Twitter rimpolpando i loro organigrammi con professionisti di comprovata esperienza, in grado di aiutarli a selezionare i fatti evidenziando come “fake” le news inventate o travisate. Un bene o un male? Difficile a dirsi. Se da un lato sarà più facile stroncare sul nascere voci totalmente false non consola che a controllare il flusso dell’informazione ci siano multinazionali che non si occupano di giornalismo. Quando leggiamo Il Giornale, Il Fatto Quotidiano o l’Unità sappiamo benissimo chi ne sono i proprietari, chi gli azionisti e quale sia la linea politica: è un’indicazione importante per interpretare correttamente i loro contenuti. Quando il filtro, e quindi la linea editoriale, è in mano a Facebook o a Twitter, è tutto più difficile. Lo abbiamo visto sia con la Brexit sia con le elezioni USA: lo spaccato che offrivano i social era estremamente lontano dalla realtà emersa col voto. O almeno, questa è la percezione di chi si informa prevalentemente sui social. Facebook e Twitter stanno correndo ai ripari, ma per il ruolo che ricoprono, la soluzione potrebbe essere peggio del male che cerca di estirpare.