“Penso che nel mondi ci sia spazio per circa 5 computer“.
È una frase che è stata attribuita a Thomas J. Watson Jr, che divenne qualche tempo dopo presidente di IBM. Non ci sono prove che l’abbia pronunciata davvero, ma certamente poteva essere sintetizzato così il suo parere, nel 1943. La storia ci insegna che Watson ha sbagliato di molto il suo pronostico eppure, oltre 70 anni dopo, stiamo riscoprendo quell’approccio.
Negli Anni ’80 il computer simboleggiava libertà e indipendenza. L’hardware era di proprietà, non un mainframe condiviso da centinaia di persona: diventava un elettrodomestico comune come un videoregistratore. Il senso del possesso aumenta col passare degli anni: ogni membro della famiglia vuole un suo apparecchio, da usare nella sua intimità, e le persone iniziano a volerlo portare sempre con sé, insieme a tutti i suoi privatissimi contenuti.
Al culmine di questa rivoluzione ci sono gli smartphone, estremamente più intimi e personali di qualsiasi apparecchio precedente. Eppure, proprio ora che privacy e protezione dei dati sono diventi temi di attualità, abbiamo a tutti gli effetti ceduto pian piano la proprietà dei dati. Per validi motivi, sia chiaro: salvare automaticamente le foto sul cloud è la forma più efficiente di backup, così come Dropbox si rivela comodissimo per condividere dati a basso costo, senza il costo e la fatica della configurazione di un server. La proprietà di queste informazioni tecnicamente è nostra, il diritto di accederci però è regolamentato dal contratto che abbiamo firmato. Con Facebook, Instagram, Google o chi altri.
Vale per i dati privati ma è una considerazione importante soprattutto per le agenzie, che molto spesso dipendono da terzi per il loro mestiere. Terzi che potrebbero cambiare le regole del gioco da un momento all’altro, se non proprio fallire. Se Gmail da un giorno all’altro decidesse di rendere il suo servizio a pagamento cambiare mail potrebbe sembrare la soluzione ideale. Sempre che Google non decida di inibire, o mettere a pagamento, il download della rubrica o dell’archivio di posta. Sembra assurdo? No, anzi, sono cose che succedono spesso. Instapage ha recentemente aumentato sensibilmente i prezzi dei suoi servizi, Chi lo utilizza può decidere di pagare di più oppure di cambiare fornitore per questo servizio. Peccato che smettendo di pagare si perdano anche i propri dati e tutto lo storico delle campagne. Per poter tenere l’account dormiente (non utilizzabile per nuove campagne ma attivo per consultare i dati) bisogna pagare una quota mensile. Potremmo dire che hanno in ostaggio i nostri dati, ma la realtà dei fatti è che abbiamo firmato un contratto che glielo permette.
Così come lo permette alle tante aziende cui ci affidiamo per il backup su cloud, come Google o Amazon. Il vantaggio è enorme, ma un down anche momentaneo dei loro sistemi potrebbe costarci tantissimo. Ancora di più potrebbe costare la violazione della privacy, cosa che non è da escludere. Inutile sperare che i colossi siano sempre e comunque buoni, o siano in grado di esserlo: qualsiasi big della tecnologia è impotente di fronte alle ragioni di stato. Non è un caso se Facebook non opera in Cina o se Telegram non è più scaricabile da AppStore in quanto Apple ha ceduto alle pressioni del governo russo.
Occhio, quindi, a non farci tradire dalla comodità e dalla semplicità. La resilienza è un valore importante, per privati e soprattutto aziende, che gestiscono anche i dati dei privati e ne sono responsabili anche penalmente. Ma soprattutto non dimentichiamo mai di chiederci dove sono i dati aziendali e dei suoi clienti, chi ne ha le chiavi e chi ne controlla l’accesso. La nostra azienda sarebbe in grado di rispondere, possibilmente velocemente, a queste domande? Se la risposta è no, c’è un problema. E va risolto al più presto.