I social network, Facebook in particolare, sono stati visti come la manna dal cielo dagli editori di tutto il mondo. In un periodo caratterizzato dalla disaffezione per la carta stampata e per l’informazione a pagamento, l’editoria si è trovata massacrata e per racimolare fondi ha deciso di cedere alla lusinga di Zuckerberg. Del resto, il pubblico ormai si era spostato dalle edicole alle piattaforme di condivisione sociale e queste ultime avevano un enorme vantaggio: erano in grado di garantire traffico a un costo infinitamente inferiore alle sponsorizzazioni AdWords, spesso quasi gratis. Gli editori hanno a lungo corteggiato Facebook, sedotti dai suoi strumenti di retargeting e da algoritmi che almeno inizialmente sembravano i migliori amici degli organi di informazione. Non si trattava certo di amore, ma di una sorta di relazione di convenienza nella quale gli editori erano convinti di essere la parte forte, quella che poteva dettare leggi all’interno del rapporto. Tanto che non esitavano a riutilizzare senza scrupoli contenuti di Youtube, Facebook e via dicendo per ripubblicarli sul proprio sito, quasi sempre senza la citazione della fonte, fregandosene degli accordi e pure del fatto che stavano letteralmente “rubando” introiti commerciali che sarebbero destinati ad altri. Forse convinti che gli editori siano gli unici che hanno diritto a fare soldi con l’informazione.
L’idillio non è durato a lungo. Gli algoritmi sono cambiati, i costi sono saliti e gli editori hanno imparato una dura lezione a loro spese: se deleghi a terzi la distribuzione dei contenuti, non ne hai più il controllo. Non ci è voluto molto tempo prima che i social questo controllo iniziassero a esercitarlo davvero. Un po’ come fanno gli spacciatori, i vari social hanno prima sedotto, regalando la visibilità gratuita e poi presentato il salato conto, obbligando editori ormai assuefatti a certi numeri a sborsare sempre più denaro per ottenere la merce di cui ormai non possono più fare a meno. Al danno hanno aggiunto la beffa, mantenendo il totale controllo del contenuto. L’articolo che stai sponsorizzando osa mostrare la Verere di Milo? Censurata, dato che Facebook è ossessionata dalla nudità femminile e non permette di mostrarla. Nemmeno quando ha secoli di storia.
Dopo anni, il risultato è che l’editoria è ancora in profonda crisi e la cura su cui si ponevano tante speranze si è rivelata omeopatica: niente più che un placebo. Il traffico generato inizialmente non ha convinto i lettori ad abbonarsi o a frequentare maggiormente i siti dei quotidiani. Anzi, ora che alcuni (come Corriere.it e Repubblica.it) hanno introdotto il paywall, la situazione si è fatta imbarazzante: quando qualche potenziale lettore segue il link trovato su Facebook si trova davanti una pagina che gli chiede di sganciare denaro per l’abbonamento se vuole leggere il contenuto. Vanificando così il buono che era rimasto della strategia.
Senza contare che i social sono ben diversi da 10 anni fa, quando il loro scopo (dal punto di vista degli inserzionisti) era portare traffico a un sito. Oggi i social sono cambiati e sono strutturati per farti rimanere al loro interno, non più per portare traffico verso siti o blog. Basti pensare a come funzionano Instagram e Snapchat per capire come sia necessario evolversi. Anche perché sono questi i social dove stanno i giovani e l’editoria non può ignorarli, a meno di volersi concentrare sui soli ultraquarantenni: i più giovani, sono già partiti verso altri lidi.
Questo non implica che gli editori debbano scaricare i social come si fa con un partner che ha infranto i sogni d’amore. Sicuramente gli editori dovrebbero ripensare il loro modo di raggiungere il pubblico, sfruttando ANCHE i social (e i loro utilissimi strumenti di targeting e retargeting), senza però trasformarli nell’unico strumento promozionale. Del resto dovrebbero aver capito che queste strategie sono rischiose: in passato avevano già affidato le loro vendite non ai contenuti ma agli allegati, ottenendo ottimi risultati sul breve termine ma incassando ceffoni a non finire quando il gioco si è rotto. Che è un po’ l’errore ripetuto coi social, sfruttati non per promuovere i contenuti rilevanti (gli articoli), ma per strappare qualche click con articoli clickbait che possono funzionare inizialmente ma che inevitabilmente infastidiscono e allontanano quelli che da un organo di informazione si aspettano qualcosa di più rispetto ai meme più o meno divertenti.