Nel mondo della tecnologia esistono due grandi famiglie di tecnologie: quelle che funzionano, spesso per motivi che non sono chiari nemmeno a chi le ha create, e le altre. Quelle che tutti vogliono, che gli appassionati smaniano per veder funzionare, sulle quali in molti scommettono ma, ineluttabilmente, faticano a decollare. Di tanto in tanto, qualcuna di queste tecnologia cadetta viene presa sotto l’ala protettrice di una over the top.
La notizia è comparsa qualche giorno fa sul blog ufficiale di Google: nei prossimi mesi, “centinaia di milioni” di dispositivi Android in grado di darci esperienze di realtà aumentata.
La realtà aumentata, per chi non frequenta le mode del mondo digitale, è quella tecnologia che permette di aggiungere oggetti digitali alla scena inquadrata sullo schermo.
Sulla carta, gli utilizzi sono molteplici, e solleticano l’immaginazione: pensiamo per esempio di inquadrare un panorama e vedere indicate l’altezza delle montagne, una scheda dei monumenti e così via.
Una delle prime applicazioni a utilizzarla sugli smartphone è stata Layar, che come suggerisce il nome permette di aggiungere “layer” alla realtà inquadrata.
Un uso un po’ diverso della realtà aumentata è stato fatto dai videogame come Pokémon Go e del suo predecessore Ingress. In generale, chi è curioso può semplicemente fare una ricerca nell’app store del suo dispositivo per trovare svariate applicazioni che sfruttano questo principio: INKHUNTER per esempio ci permette di “provare” i tatuaggi sul nostro corpo prima di farli realizzare dal nostro tattoo artist preferito.
Applicazioni interessanti, che però faticano a incontrare il grande pubblico.
Perché?
Per il più banale e frequente dei motivi, uno di quelli che ricorrono con più frequenza nella storia della tecnologia: non esistono veri standard.
Qui entra in gioco Google. Che probabilmente ha intuito il potenziale. E, probabilmente, ha davvero trovato il modo di inventare questo standard. Sfruttando una delle sue “armi” di maggiore impatto: il browser. Facciamo il punto:
Non serve essere visionari per immaginare che fra breve esisterà quantomeno uno standard di fatto nel mondo della realtà aumentata.
Ma, almeno secondo noi, l’aspetto interessante è un altro: secondo l’annuncio di Google, presto i browser saranno in grado di gestire e collocare nello spazio oggetti 3D.
Azzardiamo una previsione, che non si avvererà ma ci affascina: Google potrebbe non inventare proprio nulla. Infatti esiste già uno standard, che ci riporta in Pieni anni ‘90, che permette di rendere oggetti 3D all’interno del browser: il Virtual Reality Markup Language (esiste anche una pagina, dichiaratamente obsoleta, sui server di W3C: https://www.w3.org/MarkUp/VRML/).
Nel delirio di onnipotenza degli albori di Internet, quando “Internet” era sinonimo di giocattolo cyberpunk per nerd, si immaginava che la naturale evoluzione della Rete sarebbe stata quella di muoversi all’interno di un mondo virtuale in 3D. Nel mondo mainstream questa visione è raccontata in film come Il tagliaerbe, e piùtardi verrà ripresa, anche se sotto una luce diversa, nella saga di Matrix.
Ammettiamo che questa previsione è un gioco, oltre che un azzardo, ma proviamo a divertirci a difenderla osservando una abitudine di Google che possiamo trovare in almeno due “prodotti”, ovvero quella di recuperare standard apparentemente “spacciati” e dimostrare al mondo come si usano davvero.
Il primo e più eclatante caso è quello del protocollo IMAP usato per la posta elettronica. In un’epoca in cui la maggior parte dei provider lo aveva abbandonato a favore del più semplice POP3, arriva Google, lancia Gmail e crea un delirio collettivo. C’era chi vendeva a caro prezzo gli inviti della prima versione a numero chiuso. Dopo qualche tempo si “spacchetta” il servizio di posta e si scopre che lo scheletro è proprio il “vecchio” protocollo IMAP, finalmente usato come si deve. Per la verità esistevano servizi basati su IMAP, ma costavano cifre che noi umani…
Il secondo esempio, un po’ meno diretto, è proprio il motore di ricerca. E qui dobbiamo richiamare in gioco gli aspetti tecnici della SEO. Per esempio, gli snippet di cui abbiamo parlato di recente, si sono rifatti per un periodo molto lungo al tag HTML chiamato meta description. Che esiste nel linguaggio HTML dagli anni’90. Allo stesso modo, molte delle caratteristiche che negli anni sono state riscoperte da chi si occupa di SEO, come i titoli e i sottotitoli, o i campi usati per descrivere le immagini, non fanno altro che dimostrare come Google, almeno nel “cuore”, non fa altro che applicare con rigore gli standard che HTML ha stabilito anni prima. In altre parole, ci piace chiosare dicendo che chiunque abbia studiato bene l’HTML alla fine degli anni ‘90 è più bravo a occuparsi degli aspetti tecnici della SEO di molti degli “esperti” moderni, a patto che applichi gli standard come da manuale.
Ammettiamo che abbiamo giocato e approfittato di una notizia interessante ma curiosa per raccontare un po’ di storia e riflettere sulla tecnologia che ci circonda e su come a volte le cose inaspettate in realtà possono essere incredibilmente prevedibili.
Quindi, chiudiamo questo divertissement con una raccomandazione: chi vuole trovarsi pronto alla prossima “big thing” farebbe meglio a dare un’occhiata a quel manuale di VRML comprato nel ‘99 e lasciato sullo scaffale: non si sa mai…