Abbiamo già parlato molte volte di come il compito di una agenzia di comunicazione oggi sia laborioso: la “rivoluzione” di Internet, se ancora di rivoluzione si può parlare, ha portato le informazioni alla portata di tutti, il che è un bene.
Sfortunatamente, gli ultimi periodi in particolare ci hanno insegnato che accedere a una informazione e avere i mezzi per comprenderla sono due azioni diverse. Molto diverse.
Certo, se si parla di rocket science, tornata incredibilmente di moda grazie all’impresa storica di Elon Musk, e di persone comuni, è piuttosto facile immaginare come la la comprensione profonda dell’argomento non sia proprio alla portata di tutti.
Ma quando la questione riguarda un argomento tecnico come i motori di ricerca e quelli che dovrebbero essere gli esperti di quello stesso settore, si passa fin troppo rapidamente dall’avvertimento del contrario al sentimento del contrario.
Ora, se lo spazio fosse infinito, qui ci sarebbe da fare un paragone con la medicina aristotelica, ma visto che le “regole SEO” sono spietate e stabiliscono anche la lunghezza ideale dei post, lo lasciamo come semplice spunto.
Per rispondere, ci rifacciamo a un post di qualche mese fa di Search Engine Watch che ci suggerisce di “frenare” in merito agli annunci che ogni giorno “sconvolgono” il mondo SEO.
Di questo lungo articolo, citiamo il passaggio che ci è sembrato fondamentale:
Al di là del fatto che il termine knee-jerk reaction è stupendo e rende molto meglio l’idea, gli argomenti sono interessanti e solidi.
Riassumendo, prima di analizzare, la questione è una, vecchia come il mondo: la paura deriva dalla scarsa conoscenza.
Finalmente, qualcun altro, per fortuna estremamente autorevole, lo ha scritto a chiare lettere “Search Engine Optimization is an imperfect science”: Google non divulga i suoi cambi di algoritmo (e meno male, visto che la comunità ha già dimostrato in ogni modo possibile di non saper fare altro che tentare di trovare scorciatoie e trucchetti).
Tutti tengono stretti i loro segreti, che spesso sono segreti solo nella testa di chi li conserva. Ogni tanto, per rendere lo scenario ancora più distopico, qualche sito viene penalizzato. Il responsabile, il proprietario o il consulente SEO giurano di non aver fatto nulla, che la penalizzazione è ingiusta, e così via. Salvo poi scoprire che hanno messo in pratica ogni trucchetto e scorciatoia SEO possibile.
Aggiungiamo una quantità soverchiante di articoli con consigli SEO, guide, “trucchi SEO”, “dieci cose da fare per essere primi e così via”, e avremo uno scenario che ci fa rimpiangere i buoni vecchi tempi in cui i ciarlatani vendevano solo sciroppi miracolosi.
Quidi, la comunità degli esperti SEO risponde istericamente a qualsiasi novità. L’articolo a cui ci siamo ispirati difende questa tesi con due esempi più che lampanti.
Ecco il primo: nel 2014 Matt Cutts di Google pubblica un post “accorato” in cui condanna fermamente l’uso del guest posting come strumento per manipolare e influenzare i risultati di ricerca. La comunità legge solo il titolo (e lo capisce anche male). L’unica cosa che comprende è che il guest posting smetterà di funzionare come scorciatoia e la scena si riempie di una sola voce: Il guest posting è morto.
Peccato che Cutts nel suo intervento dicesse una cosa molto diversa, ovvero: “ragazzi, vi abbiamo beccati, la festa è finita. Stiamo facendo tutto il possibile per impedire che il guest posting si riduca a un modo per fregare Google”.
In altre parole, il guest posting va benissimo ancora oggi, nel 2017, a patto che sia fatto con criterio, rilevanza e qualità.
Altro esempio: i due più celebri aggiornamenti di Google, Panda e Penguin, hanno creato una selva di grida disperate: “La SEO è morta”. Anche in questo
caso, tutto quello che hanno fatto quegli aggiornamenti di Google, e in tempi più recenti l’update Fred, è stato scrivere la parola fine su tecniche di spam, trucchetti e scorciatoie. Guarda caso, i siti che non facevano ricorso a strategie dubbie, tecniche basate sullo spam e pratiche discutibili, in seguito a questi aggiornamenti non hanno perso mezza posizione. Anzi, spesso ne hanno guadagnato.
Dunque: è sotto gli occhi di tutti che, a ogni “colpo di mannaia” di Google, presunto o reale che sia, chi subisce i danni maggiori è chi fa uso di trucchi SEO, scorciatoie e pratiche discutibili. Quindi, esistono tre ipotesi possibili. Alla maniera di Douglas Adams, le citiamo in ordine di improbabilità:
La maggior parte degli esperti SEO fa uso di trucchetti, quindi vive con il costante terrore di essere colto con le mani nella marmellata;
Istituire un clima di costante paranoia permette di avere sempre argomenti nuovi, per apparire più informati degli altri esperti e soprattutto vendere qualcos’altro ai clienti;
Pochi strilli fanno molto rumore.
A questo aggiungiamo una nota di scenario: una fetta significativa delle persone che si occupa di SEO non ha memoria storica dei linguaggi e della tecnologia che sta alla base della Rete: ne abbiamo già parlato in passato. Questo crea ulteriori fraintendimenti: un esempio su tutti è quello stra-noto dei tag H, che da quanto esiste l’HTML hanno sempre avuto la funzione documentata di identificare gli Headings. Per anni però sono stati usati per tutt’altro, dagli elementi grafici ai menu di navigazione.
Poi un giorno ci si è resi conto che l’algoritmo di Google, che naturalmente è basato su HTML, almeno nella parte “primordiale”, privilegia i siti che utilizzano i tag HTML in modo appropriato.
Ma, la community ha partorito aberrazioni come “ogni pagina deve avere almeno un certo numero di intestazioni”. Perché, naturalmente, è più semplice elaborare una regoletta SEO rispetto allo studiare e comprendere un linguaggio come HTML.