Io ci sto. Io ci metto la faccia! Anzi, no! - Hydrogen Code
ottobre 5, 2017

Voler diventare dei volti famosi è il sogno di tanti, soprattutto dei più giovani, di coloro che amano scattarsi centinaia di selfie per poi darli in pasto al popolo di Internet che, a suon di like, cuoricini ed emoji, esprimerà il suo giudizio. Per alcune persone, tendenzialmente appartenenti alla generazione dei Millenials, vedere i propri post e le proprie foto ricondivise, apprezzate e commentate da altri è l’equivalente di una droga: eccita e porta alla dipendenza. I commenti negativi? Uno scotto da pagare per la popolarità, una delle scocciature con cui convivere quando si gode di una certa fama nel mondo virtuale: la maggior parte delle persone è preparata, se non ormai abituata, a ricevere insulti virtuali. Conosce i modi per bloccare gli scocciatori e ha la forza d’animo di ignorare anche le frasi più turpi.

Non tutti però inseguono le luci del palcoscenico. Pensiamo a Katia, direttrice della filiale di Banca Intesa di Castiglione delle Stiviere, divenuta suo malgrado nuova stella di Internet dopo che un video interno che aveva girato coi suoi colleghi è stato caricato su Facebook. Sono bastate poche ore per raggiungere milioni di visualizzazioni, il tutto senza contenuti sexy: è bastata la comica ingenuità della protagonista e dei suoi collaboratori a farlo rimbalzare da un profilo all’altro. Da Internet alla radio e ai quotidiani il passo è stato breve. 

Come prevedibile da chiunque conosca Internet, non sono mancati commenti di ogni tipo. Se il termine “disagio” che accompagnava il post originale faceva sorridere, non sottintendeva una critica troppo feroce, in breve si è passati a insulti espliciti. Addirittura alcuni alfieri del buon gusto hanno avanzato richieste di licenziamento, ché a loro dire un direttore di banca non dovrebbe mostrarsi in questa maniera, come se l’unica immagine rispettabile di chi lavora in una banca sia quella proposta in Mary Poppins.  

Fortunatamente in molti la difendono Katia, la sostengono. Attaccando chi la denigra, dandogli del bullo e, infine, arrivando a un assurdo e improponibile paragone con il caso Tiziana Cantone. Alzando anche loro i termini così tanto che il dibattito che ne scaturisce è grottesco fra i “buoni”, che accusano di bullismo anche chi ha solo condiviso il video, e i “cattivi”, che replicano accusando gli altri di buonismo e moralismo.


Tanto baccano per una storia che a breve sarà dimenticata, come abbiamo dimenticato Tron GuyStar Wars Kid e tanti altri fenomeni. Dimentichiamo i personaggi ma non l’amore per la polemica che, ne siamo certi, ripartirà solo fra qualche settimana, per qualcun altro, per qualcosa d’altro, tutto uguale. Perché alla fine è inevitabile: su Internet si è dall’altra parte dello schermo, protetti da schiaffi e pugni che potrebbero arrivare nel mondo reale ma pronti a elargire cazzotti virtuali contro qualsiasi bersaglio. Non necessariamente per cattiveria, spesso solo per pura cafonaggine, talvolta per sfogare le frustrazioni. Basta leggere i commenti a qualsiasi articolo di giornale: le differenze di opinioni si scaldano presto e in un attimo si è al delirio. Succede in Italia come nel resto del mondo: possiamo considerarlo un bug di Internet, anche se a ben vedere assomiglia più a una feature, una sua caratteristica. 


Dobbiamo tenerne conto del fatto che quando ci esponiamo pubblicamente la probabilità di essere attaccati da sconosciuti è elevata e cresce in maniera proporzionale a quante persone raggiunge il post. La cosa vale anche per contenuti degli altri: ogni volta che condividiamo qualcosa, contribuiamo sia al suo successo sia all’aumento degli insulti destinati all’autore del post originale. Un ottimo motivo per prestare molta più attenzione quando si pigia sul tasto “condividi”. Facile a parole, difficile da mettere in pratica, perché alla fine risulta molto difficile capire quando l’autore non ne vuole la diffusione. Prendiamo il video di Katia: quanti, vedendolo, hanno pensato a un’iniziativa mal riuscita della banca? Molti, forse la maggior parte. Non c’erano immagini rubate, nudità o altri campanelli d’allarme: tutti i partecipanti erano consci che stavano girando un video.
Il problema è che quel video su Internet non ci doveva finire. Aveva iniziato a girare sui gruppi Whatsapp da parecchie settimane sino a che qualcuno non ha deciso di pubblicarlo su Facebook, dando così pieno sfogo alla viralità. Questo è stato l’errore, il peccato originale che ha scatenato il tutto.

Come dai cellulari privati quel video sia poi rimbalzato su Facebook non ci è dato saperlo ma ci ricorda un aspetto che molti, ancora, trascurano: se volete che qualcosa rimanga privato, non fatelo MAI uscire dal vostro dispositivo. Non condividetelo nemmeno con l’amico più fidato, perché una volta perso il controllo del contenuto non avrete più modo di bloccarne la diffusione né gli inevitabili commenti inopportuni. Certo, potrete denunciare, magari contro anonimi, ma ormai l’intimità è violata, non ci sono soluzioni.


Una piccola riflessione prima della chiosa la merita però l’atteggiamento di Banca Intesa, quella che ha organizzato il concorso interno ma non ha saputo formare i dipendenti alla riservatezza, non è stata in grado di proteggerli. Soprattutto, al momento in cui scriviamo non ha nemmeno pubblicato un comunicato, un commento di supporto… ha lasciato Katia in balia degli internauti dall’insulto facile, lavandosene le mani. Come è possibile che un colosso non abbia un’unità in grado di gestire questo tipi di crisi? Soprattutto quando la crisi è in parte scaturita da una strategia della banca stessa che per spronare i suoi dipendenti ha voluto introdurre i metodi più beceri utilizzati dai motivatori americani. Il sindacato, invece, la sua l’ha voluta dire. Pubblicamente, in questo oggettivamente divertente comunicato.

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