Da quando l’accesso a Internet è diventato comune come possedere un cellulare, il mondo dell’informazione è stato stravolto. Tutti quelli che lavoravano nell’editoria hanno dovuto fare i conti con l’informazione gratuita. Non era più necessario stare appiccicati al telegiornale o comprare il quotidiano ogni mattina per leggere le ANSA.
Inevitabilmente, i quotidiani hanno dovuto adeguarsi tanto che in breve tempo, tutti sono sbarcati online con il loro carico di notizie totalmente gratuite. Come hanno potuto mantenersi? Esattamente come con le versioni cartacee, cioè con la pubblicità.
Inizialmente le cose sembravano funzionare, anche perché i commerciali erano in grado di vendere gli spazi online dei vari quotidiani a cifre ben più basse rispetto alla rivista, ma sempre molto elevate. Non solo: l’edizione online era solo una costola della testata e non aveva una vera e propria redazione a sé stante. Col tempo però i lettori iniziano a essere più esigenti, a voler leggere solo news online e per colpire la loro attenzione si rese necessario aggiornare il sito più volte al giorno, inserire video, moderare un numero sempre più elevato di commenti.
Contemporaneamente i prezzi della pubblicità venduta dagli agenti erano in crollo costante mentre Google e i social network prendevano interamente controllo della pubblicità online, abbassando sensibilmente i prezzi delle visualizzazioni e click sui banner e costringendo gli editori a cambiare strategia.
A questo punto le vendite calano, i ricavi pubblicitari collassano e gli editori si arrangiano come possono. Abbassando i compensi dei nuovi giornalisti assunti, quelli che sulla carta conoscono bene il medium, riducendo le assunzioni e iniziando a martellare i lettori con banner a profusione che rendono la navigazione pesante e l’esperienza di lettura frustrante. Il risultato? Sempre più persone, stufe di aspettare decine di secondi per leggere una notizia o vedere un video installano gli adblocker, vanificando quindi l’aumento di traffico garantito dalle notizie condivise via Facebook o Linkedin.
A oggi, la strategia più in voga dagli editori europei è quella di “chiedere i soldi di Internet”. Si è fatta strada l’idea che Google e Facebook (ma non solo) guadagnino dagli snippet degli articoli dei giornali e, di conseguenza, le lobby degli editori hanno spinto l’unione europea a battere cassa, cosa puntualmente avvenuta con l’approvazione della famigerata Link Tax. A quanto pare sia gli editori sia i legislatori hanno problemi non solo a capire come funziona Internet (ma questo lo avevamo già notato durante il “processo” a Zuckerberg”): hanno pure una memoria molto corta. Sì, perché la Link Tax, o Google Tax come la chiamavano allora, fu testata in Spagna nel 2014 con risultati prevedibili per chiunque avesse un po’ di buon senso: Google si limitò a non indicizzare in Google News gli articoli dei giornali spagnoli, con il risultato che gli editori si trovarono senza i denari della tassa e con un sacco di accessi in meno. Capirono presto che se c’era qualcuno che guadagnava dagli snippet erano loro, non i motori di ricerca, ma a quanto pare la lezione non è stata compresa. O ricordata.
Così come non è stata compresa la lezione che ci viene dall’altra parte del mondo, dagli USA, dove gli editori si sono scontrati molto prima con questi problemi e, non senza difficoltà, stanno iniziando a vedere la luce. Come nel caso del NY Times, che invece di bloccare assunzioni e ridurre stipendi ha fatto una rivoluzione puntando sulla qualità, così da convincere sempre più utenti ad accettare di buon grado il Pay Wall, l’abbonamento alla testata digitale che scatta dopo un tot di articoli visti gratuitamente.
Anche in Italia molti quotidiani hanno di recente sposato il concetto di Pay Wall ma non hanno imparato la lezione fondamentale: puntare sui contenuti che attirino un pubblico pagante. Di contro, si preferisce vendere la stessa banalità di prima a caro prezzo. Forse davvero convinti che fra un paio di anni, quando entrerà in atto la nuova risoluzione europea, i colossi del web daranno loro qualche briciola invece di abbandonarli al loro destino. Un grave errore di miopia, che dimostra quanto il mercato editoriale italiano ed europeo sia incapace di guardare avanti o di prendere spunto dai tanti esempi virtuosi. Come ci dimostrano Spotify, Netflix o Kindle Unlimited, le persone sono disposte a pagare una ragionevole cifra mensile per accedere a dei contenuti. A patto che questi siano di qualità e non si venga massacrati da fastidiose pubblicità. Purtroppo la stampa italiana preferisce ancora puntare su titoli acchiappaclick, e informazioni poco corrette, se non proprio false. Guardando più all’esempio del gossip che a quello del NY Times o del Washington Post.