Chiunque oggi, 3 luglio 2018, abbia provato a visitare Wikipedia Italia si è trovato di fronte a una sorpresa: l’enciclopedia libera è inaccessibile. Non si tratta di un sabotaggio ma di una libera scelta dei moderatori italiani che con questo gesto vogliono protestare contro la (possibile) approvazione della nuova direttiva sul diritto d’autore. La direttiva è in realtà già stata approvata dalla commissione giuridica, ma ancora manca il voto del parlamento EU, che sarà chiamato a esprimersi il 5 luglio.
I toni sono decisamente allarmanti e l’invito a telefonare agli eurodeputati, con allegato il testo da “recitare”, assomigliano a tante campagne di clickbait, con la differenza che Wikipedia a tutti gli effetti sta sacrificando il suo traffico per porre l’attenzione su un tema molto rilevante ma quasi totalmente ignorato dai media e dalla politica, fatte alcune eccezioni.
Ma cosa cambia esattamente? E perché protestano solo Wikipedia Italia e alcuni studiosi informatici, fra cui Tim Berners-Lee, fondatore del World Wide Web?
La questione è delicata e riguarda due degli articoli: l’Articolo 11 e l’Articolo 13 della Direttiva.
L’Articolo 11, giornalisticamente chiamato Link Tax, stabilisce che le piattaforme online devono dotarsi di licenza per pubblicare link e snippet di pubblicazioni online. Banalmente, Google o Facebook dovranno chiedere (e pagare, come specifica l’Articolo 12) una licenza per pubblicare un link con l’anteprima (lo snippet) di un articolo pubblicato su Repubblica.it.
Il termine Link Tax non è tecnicamente corretto dal momento che non si tratta di una tassa ma del pagamento dei diritti d’autore, però aiuta a comprendere il concetto. E a capire come mai la stampa non stia dando troppo spazio al tema: gli editori hanno tutto da guadagnarci.
Più controverso l’Articolo 13, che impone alla piattaforme digitali (Google, Youtube, Facebook, Instagram…) di adottare filtri preventivi per evitare che gli utenti carichino materiale coperto da copyright. Praticamente dovrebbero adottare degli algoritmi simili a quelli di Shazam per identificare i contenuti e bloccare chi cerca di caricare canzoni o video senza il consenso dell’autore. L’obiettivo è certamente nobile ma l’approccio è fondamentalmente sbagliato, come dimostrano i fatti. Da qualche tempo Youtube ha introdotto il ContentID, un filtro che fa esattamente quanto richiesto dalla direttiva, e i risultati non sono esaltanti. Se i colossi dei media esultano perché effettivamente ContentID è molto efficace nello scovare canzoni e spezzoni di video “illeciti”, i creatori di contenuti si scontrano con l’eccesso di zelo degli algoritmi. Basti pensare al caso di eeplox, youtuber che si è visto bloccare un video fatto dalla finestra di casa sua. Il motivo? Il cinguettare degli uccelli era coperto dal copyright di un’azienda chiamata Rumblefish. Naturalmente l’azienda non ha MAI preteso i diritti su una simile cosa, ma questo è quello che può accadere quando si affidano a una macchina compiti di questo tipo, che richiedono anche un po’ di buon senso. Non si tratta di un caso isolato, come dimostra l’agenzia spaziale NASA che in più occasioni si è vista bloccare (fortunatamente per poche ore) video di sua proprietà, come l’atterraggio del rover su Marte nel 2012. Addirittura, a volte può bastare un fruscio per ingannare i sistemi.
Il fatto che questa proposta di decreto, nonostante le proteste di tanti addetti al settore, possa essere approvata dimostra ancora una volta che chi si occupa di certe scelte purtroppo non ha la competenza per affrontare questioni tanto complesse. Ci mostra anche che la maggior parte dei media non ha fatto il lavoro di cane da guardia e ha preferito trattare il tema con sufficienza, se non ignorarlo del tutto, ma questo era prevedibile: i grossi gruppi editoriali hanno solo da guadagnare da queste decisioni e certamente hanno lobbizzato negli anni per creare il terreno fertile a simili scelte. Che, sul lungo termine, potrebbero essere controproducenti anche per loro e non solo per la comunità, come accade ora.