È quasi silenziosa la bomba che pone fine alla Seconda Guerra Mondiale. Dopo anni di terrore e sangue, un bagliore illumina le città di Yroshima e Nagasaki. Vento caldo, poi bruciante, poi nulla. Tutto in un attimo viene raso al suolo. È la fine di una guerra. Il 2 settembre 1945 gli eserciti cessano di combattere.
Si apre una nuova epoca per l’umanità. Un’epoca dove il concetto di pace e di paura convivono insieme in strana armonia nei termini “Guerra Fredda” e “Bomba Nucleare”.
Lo sviluppo economico ritorna a vivere e le antiche monarchie europee cedono il passo alla democrazia repubblicana.
Un’ evoluzione e un progresso lontani però dagli sfarzi e gli eccessi della belle époque o dagli anni ruggenti americani.
Il mondo riprende a camminare velocemente verso il progresso ma lo fa silenziosamente.
Come se quei sei anni di guerra e bombe avessero impresso una ferita profonda nel cuore dell’umanità. Ai ritmi coinvolgenti del jazz, si sostituiscono quelli più pacati e lenti della musica soul e blues!
Ogni militare in quel periodo si spoglia della divisa per ritornare a indossare gli abiti borghesi, cercando di lasciare indietro gli anni di terrore. Ma un vuoto persiste, incolmabile e inspiegabile nell’animo delle persone.
La guerra era finita fuori ma restava ancora viva dentro di loro.
Così l’umano assiste da spettatore passivo alla fine di una guerra difficile e drammatica, come un uomo che guarda fuori dalla finestra in cerca di un orizzonte che non riesce più a trovare.
È l’inizio del secondo dopoguerra.
La fine della Seconda Guerra Mondiale restituisce all’Europa un volto completamente modificato sia nell’animo che al di fuori di esso. I giochi geopolitici mutano definitivamente e i confini geografici iniziano a prendere quella forma che conosciamo ancora oggi.
Due blocchi contrapposti prendono piede sulla scena del mondo. È l’epoca delle grandi dichiarazioni di pace e dei diritti umani ma è anche l’epoca di muri e divisione.
Ci si guarda ancora da lontano con diffidenza e spirito critico.
Dalle macerie dei bombardamenti si inizia a costruire ciò che si era perso.
Il 5 giugno 1947 il Segretario degli Stati Uniti George Marshall, dichiara che il primo passo da fare è quello di aiutare l’Europa a rinascere. È così che da quell’anno fino al 1951 lo Stato Federale versa ai paesi del Vecchio Continente 13 miliardi di dollari utilizzati per la costruzione. Esportando di fatto il benessere e insieme ad esso le dottrine economiche a stampo capitalistico. Per tutti gli anni ’50 c’è un susseguirsi di date fondamentali per la politica mondiale.
Nel giro di pochissimi anni l’Europa torna a respirare e la Germania dell’Ovest diventa la prima potenza economica del continente. Pur essendo divisa in se stessa dalla dominazione a Est dello Stato Sovietico.
Se da un lato, quindi, la Russia continua a dominare su tutto l’Oriente Europeo, l’Occidente con- tinua a industrializzarsi in maniera quasi uniforme.
Persino l’Italia nel suo piccolo diventa fulcro della rinascita, grazie alla sua posizione strategica nel Mediterraneo e all’industrializzazione del Meridione.
Ma sono gli Stati Uniti ad essere il protagonista principale di questa corsa all’oro.
Una maggiore produzione conduce ad un più ampio sviluppo dei consumi.
Nel 1955 aprono Disneyland e McDonald. Considerati ancora oggi due enormi colossi dell’economia americana. Per non parlare della NASA, fondata nel 1958.
Ovviamente, in tutto questo rilancio economico e produttivo, il Pontefice indiscusso tra produttori e consumatori resta sempre lei, la pubblicità.
La televisione è considerata una delle più grandi invenzioni della storia e causa, a dire di molti ironici, dell’abbassamento dei dati di nascita nel mondo occidentale.
Tra il 1951 e il 1954 vengono inventati in ordine la tv a colori e il telecomando. Si stima che dal 1955 in poi ogni famiglia americana avesse in casa un televisore.
Parliamo di una rivoluzione in termini di comunicazione. Per la prima volta c’è un mezzo capace di uniformare le masse e di farle guardare in contemporanea lo stesso programma. Chi riesce ad apparire in televisione ha il potere di lanciare un messaggio a tutti con uno sforzo minore rispetto alla radio e alla réclame tradizionale.
Uno dei primissimi colossi a comprendere le potenzialità degli spot video è Volkswagen che dal 1949 inizia a girare una serie di spot dal tono di voce vivace e accattivante, come il primissimo “VW Bug at an auto show ad with Wink Martindale”.
La portata di questo cambiamento è epocale. Se nel ’45 infatti gli americani conquistarono la Germania, a soli quattro anni di distanza tocca ai tedeschi conquistare gli americani con un’automobile, considerata iconica ancora oggi.
Ma non è solo la portata del messaggio a interessare l’industria della pubblicità.
Se è importante parlare alla televisione, ancora più importante è capire con chi si sta parlando. È così che in quegli anni nasce il concetto di targeting, ovvero lo studio del pubblico per attivare pubblicità su misura per i bisogni dei diversi consumatori.
Un altro elemento onnipresente negli spot di quegli anni sono le sigarette “.
L’industria di tabacco americano in quegli anni subisce un duro colpo a causa di un report del 1953 in cui si conferma il legame tra il fumo di sigaretta e il manifestarsi del cancro.
Il Governo degli Stati Uniti impone alle grandi aziende di non invogliare più i consumatori a fumare troppo e ordina che nelle pubblicità non si affermi più che il fumo fa bene alla salute.
Ecco che i pubblicitari si trovano davanti ad una grande sfida comunicativa, dovendo trovare nuove modalità per istigare le persone a fumare.
Ma il genio dei grandi pubblicitari dell’epoca non si arresta. Sono comunemente chiamati MadMan a causa della loro vita lontana dai canoni di perfezione borghese.
Si ingegnano ad arte per restituire un nuovo volto all’industria del tabacco che non urti la sensibilità del Governo.
Nasce il mito del CowBoy fumatore, l’uomo americano che parte alla conquista del West, legando così le sigarette ad un messaggio di forza e potere maschile.
In alternativa si punta al sapore delle sigarette come qualità gradevole, legandole all’immagine di erba tostata come il buon pane al mattino.
In Europa tutto procede più lentamente. In Italia la televisione ci metterà qualche anno in più prima di prendere piede su larga scala, ovvero, quando l’invenzione delle cambiali consentirà ai cittadini di acquistare prodotti di lusso a rate.
È il 3 febbraio 1957 e già in alcune case italiane risuonano per la prima volta le note della sigla del “Carosello“. Il primo show per famiglie con inserimenti pubblicitari.
L’Italia si trova davanti ad un fenomeno nuovo. La cultura non è ancora abituata alla mentalità consumistica americana, tuttavia l’economia chiede agli italiani di fare uno sforzo in più da questo punto di vista.
È così che per indorare la pillola, gli spot del Carosello si presentano sotto forma di cartoni animati e soap opera avvincenti, dove il protagonista non è il prodotto ma il racconto di una storia. Il risultato però a volte è deludente. Ancora oggi, molte delle persone che da piccoli guarda- vano Carosello ricordano benissimo le avventure di Carmencita e il Caballero ma difficilmente ricordano di quale compagnia di Caffè fossero i testimonial. Si tratta inoltre di pubblicità molto lunghe. Lo spot televisivo “RCA Air Conditioner” andato in onda nel 1960 dura più di 90 secondi. Un tempo infinito per noi contemporanei.
Verso la fine degli anni ’50 e l’inizio degli anni ’60 il boom economico e capitalistico subisce un brusco freno, tutti i paesi industrializzati affrontano una crisi economica, ma soprattutto culturale. La prima a pagarne le spese è la pubblicità.
I pubblicitari, infatti, subiscono numerose critiche da parte degli intellettuali, dai giovani e da numerose persone che condividono le ideologie anticonsumistiche. L’accusa è quella di creare negli individui bisogni di consumo “falsi” e “superflui”. Nel 1964-65, anche in Italia arrivano i primi segnali di tale contestazione verso il mondo della pubblicità.
Passata l’epoca della ricchezza consumistica indisturbata, i linguaggi iniziano ad evolvere e il mondo dell’arte conosce un rifiorire grazie all’avanzare dei due più grandi movimenti del tempo: la Pop-Art e il Minimalismo. Entrambe i movimenti sono figli del dopoguerra, della cultura consumistica e della pubblicità.
La Pop Art in particolare, può essere considerata la prima forma d’arte nata dalla pubblicità e non viceversa. Si presenta con Foto, Rielaborazione di immagini pubblicitarie, Fumetti, Performance e improvvisazioni, dove l’artista realizza le sue opere davanti ai suoi spettatori.
Tutto diventa manifestazione del disagio causato dal bombardamento pubblicitario e la voglia di consumare fino a scoppiare.
Nata tra il Regno Unito e gli Stati Uniti, vede come principali protagonisti artisti del calibro di Andy Warhol, Roy Lichtenstein, Claes Oldenburg, Richard Hamilton, Robert Rauschenberg e Jasper Johns. Le loro opere sono semplici ed immediate, quasi una caricatura delle copertine patinate delle riviste. È un’arte che si rivolge alle masse mettendo in mostra elettrodomestici, lattine di zuppa e fumetti. Esattamente come la pubblicità, le opere di questo movimento non sono altro che prodotti commerciali.
Questa volta però non con l’intenzione di vendere ma di trasmettere un messaggio.
In questo caso gli elementi si fondono e la pubblicità si fa uguale all’arte, o meglio il contrario. L’arte dei cesti di frutta e dei fagiani posati sul tavolo è finita, le nuove nature morte sono cucine piene di barattoli brandizzati e pacchi di cereali.
Se volessimo fare un paragone tra le pubblicità dell’epoca e i quadri qui riportati, non riusciremmo quasi a distinguere uno stile da un altro.
Di tutt’altro avviso invece è l’Arte Minimalista. Il termine viene coniato nel 1965 dal filosofo inglese Richard Wollheim.
L’arte minimalista nasce in seno alle proteste anticonsumistiche della pubblicità e rifiuta ogni forma di iconografia e di immagine.
Propone solo elementi semplici, ridotti all’osso, al minimo della comunicazione. Guarda alle forme dei grattacieli che sovrastano le città e rifiuta tutto ciò che è rappresentativo della religione capitalista. In un’epoca in cui la gran parte delle persone in vita era stata assordata dal rumore di bombe e carri armati, il minimalismo impone il silenzio e la tranquillità. Emergendo dal caos distopico generato dalla Guerra Fred- da. All’interno del panorama pubblicitario troviamo un famosissimo esempio di pubblicità minimalista.
Il caso è nato grazie al bisogno della Volkswagen di indurre i consuma- tori a optare per il famoso Maggiolino. Nell’era del consumismo tutto doveva essere grande. Dagli elettrodomestici alle auto, la grandezza era indice di benessere. Come invogliare allora la gente ad acquistare una delle auto più piccole mai prodotte nella storia?
A venire in aiuto del colosso automobilistico arriva Bill Bernbach, fon- datore dell’agenzia DDB e geniale copywriter autore di moltissime pubblicità di successo dal 1959 in poi.
L’idea del copywriter è semplice ed efficace, ridurre al minimo il concetto e distogliere l’attenzione dalle grandi produzioni di massa. Si chiamerà “Think small”. Se non è Minimal Art questa…
La Pop Art e la Minimal Art contribuiscono definitivamente a rivoluzionare il mondo della pubblicità. Apportando cambiamenti non solo nell’arte ma anche nella mentalità delle persone, grazie alla loro distribuzione di massa dovuta ai messaggi semplici e immediati che propongono.
Ora toccherà a quelle stesse masse, dare il via ad una delle più grandi rivoluzioni culturali mai viste prima.