Immaginati di essere insieme a un amico, nel 2008, in una Parigi coperta di neve e alla disperata ricerca di un taxi. Mentre aspetti invano ti balena in mente una cosa tanto folle quanto intelligente: “pensa che figata se potessi chiamarlo con un’app quel taxi!”. Immagina che quel pensiero buttato lì lo raccogli il giorno dopo e, un anno dopo, riesci a recuperare 200.000 dollari in seed. Per molti già questo è un sogno a occhi aperti, non certo per Travis Kalanick e Garret Camp, i fondatori di Uber, che puntarono ben oltre e già nel 2011 raccolsero più di 44 milioni, ai quali se ne aggiunsero altri 258 due anni dopo, quando Google Ventures decide di lanciarsi nell’affare.
Inutile dire che un simile successo oltre a rendere felici i fondatori fa inferocire più di qualcuno. Soprattutto in Europa, continente che ancora vede con sospetto la liberalizzazione dei settori e la globalizzazione. E che ha faticato ad accettare l’arrivo di un’azienda tanto dinamica che, a suon di innovazione, ha messo in crisi i precedenti modelli di business.
Uber non ha certo smesso di essere una startup nell’anima, nemmeno dopo aver raccolto miliardi di fondi. I due soci hanno continuato a sperimentare e innovare, riuscendo nel duplice intento di far felici i consumatori e ancora più nervosi i tassisti grazie a una nuova idea: UberPop. Il concetto è semplice: Uber è perfetto per gli uomini d’affari che non hanno problemi a spendere di più per una corsa già di suo costosa. UberPop invece permette a chiunque di dedicare qualche giorno od ora del suo tempo per arrotondare lo stipendio improvvisandosi tassista: basta installare l’app e dichiararsi disponibile. Il successo è stellare, sia fra i conducenti sia fra i clienti. UberPop non piace ai tassisti e nemmeno ai legislatori, visto che non si sposa proprio bene con le leggi europee. In molti paesi viene bloccato dopo poco, in altri continuano le battaglie legali. Uno schiaffo a Uber alla sua crescita. Fortunatamente l’anima da startup rimane e chiuso UberPop si apre UberEats per le consegne a domicilio. Non solo delle pizze, ma di qualsiasi ristorante voglia aderire. Del resto, il mondo del “food” è in crescita, perché non sfruttare questa passione travolgente per la buona cucina, le materie prime e i ristoranti?
Il successo di Uber sta nel non lagnarsi né sedersi sugli allori, ma di pensare sempre come una piccola azienda che deve crescere, a dispetto dei miliardi sul conto. Ecco quindi che vengono siglati accordi con alcune aree metropolitane per colmare i gap del trasporto pubblico e semplificare la vita ai pendolari. Ecco che nella trafficatissima San Paolo nasce UberCopter, per chi non può perdere ore nel traffico. E chi vuole risparmiare? Per lui c’è UberPool, che permette a più sconosciuti di condividere la stessa corsa.
Chissà quali saranno i prossimi passi ma considerato che nel prossimo futuro la guida automatica sarà una realtà, Uber sta già lavorando in funzione di questo, prevedendo flotte di auto prive di conducente e garantendo una speciale pensione ai suoi dipendenti che li aiuterà quando il loro lavoro sarà inevitabilmente gestito dalle IA.
La storia di Uber sottolinea un aspetto che forse molti startupper sottovalutano: non basta l’idea. E nemmeno saperla realizzare. Bisogna costantemente sapersi evolvere e trasformare: una startup non smette di essere tale una volta arrivati i round importanti. Non può sedersi e dare per assodato il suo modello di business. Non se vuole sopravvivere, per lo meno.